A Bari la tavola è un ‘palcoscenico’ Giornaledipuglia.com 5 aprile 2018
“A tavola non si invecchia” è un modo di dire che si presta ad una duplice interpretazione. La prima è fondata sull’ottimismo che ritiene il tempo dedicato ai piaceri della mensa ed alla conversazione con i commensali, non passi mai e che il mangiar bene dia salute e lunga vita. L’altra interpretazione, invece, ha le sue motivazioni nel pessimismo, ed è riferita al fatto che mangiare molto accorcia la vita, come recita un altro proverbio “Uccide più la gola che la spada”.
Sta di fatto che la cucina italiana è fra le più ricercate e apprezzate per le sue bontà e le sue varietà, soprattutto per quanto riguarda pasta, pizze, gelati, dolci, ecc.
Per non parlare delle pietanze regionali che si aggiungono ai piatti cosiddetti “nazionali”.
La gastronomia, secondo lo scrittore francese Guy de Maupassant (1850-1893), è il complesso delle regole e delle usanze relative alla preparazione dei cibi, “È l’unica passione seria”. La conferma viene da Pellegrino Artusi (1820-1911), famoso scrittore e gastronomo, autore della nota pubblicazione “Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, edita nel 1891 e validissima ancora oggi.
La tavola per gli italiani, e soprattutto per i baresi, rappresenta il momento in cui ci si ritrova con i propri affetti, in un posto familiare e lo si aspetta per fermarsi un po’ e ritrovarsi con sé stessi e con gli altri. Lino Patruno, scrive nel suo libro “Invito a Bari” (Adda Editore), che «La tavola per i baresi non è una tavola, è un palcoscenico. E lo spettacolo non può essere recitato che collettivamente, insieme agli altri, secondo il significato più letterale di “convivio”. Per i baresi mangiare non significa nutrirsi. Tanto meno significa nutrirsi in qualunque posto si trovino. Per i baresi mangiare significa anzitutto mettersi a tavola. E mettersi a tavola non significa insalatina e via. Mettersi a tavola significa il tovagliolo sulle gambe. Significa il doppio piatto. Significa il primo, il secondo, la frutta, il bicchiere di vino, il caffè. Significa la sonnolenza. Significa “lasciatemi stare” un quarto d’ora» per la cosiddetta “pennichella”, soprattutto d’estate, che a Bari si chiama ‘calandrèdde’ ed è riferito al periodo denominato ‘controra’, a cui nessun barese rinuncia dopo il pasto di mezzogiorno e che per Dante è “il tentennare della testa del dormiente”.
Anche alcuni celebri personaggi come Lucio Licinio Lucullo (117 a.C.-56 a.C.), François-Renè Chateaubriand (1768-1848), Giacomo Casanova (1725-1798), Vittore Carpaccio (1465-1525-6), Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826) e il marchese Louis de Béchamel (1630-1703), hanno dato un apporto, pur non essendo cuochi, a suggerire ricette e condimenti, o a coniare aforismi come «Solo l’uomo intelligente sa mangiare».
Da Casanova, ad esempio, deriva la pietanza “Piccioni alla Casanova”, una sorta di piatto a base di carne di volatili, carciofi, funghi e tartufo nero, mentre da Chateaubriand deriva una particolare tecnica di preparazione e cottura di una fetta di Filetto (parte di muscolo particolarmente tenero).
Al nome dell’artista Vittore Carpaccio, invece, è legata la tecnica di cottura a freddo o di marinatura della carne. Infatti, in occasione di una mostra del pittore a Venezia, una nobildonna ivi recatasi, non potendo mangiare cibi cotti, chiese al ristoratore di prepararle un piatto appetitoso. Il cuoco preparò delle sottilissime fettine di carne cruda, condite con sale, pepe, limone e varie spezie, che incontrò non solo il gradimento della nobildonna, ma anche di altri avventori che tornavano dalla mostra. Il “piatto” prese così il nome di “Carpaccio”.
A Brillat-Savarin – magistrato e autore del trattato “La Fisiologia del gusto” – si deve lo studio di esplorare, mangiare e stare a tavola negli aspetti filosofici, psicologici ed economici. Il marchese de Béchamel diede il nome ad una nota salsa, béchamel appunto, che incontrò il gradimento di Luigi XIV, il Re Sole, il quale dispose che la candida salsa guarnisse tutti i piatti e che nell’Italia dell’Ottocento venne chiamata balsamella, ma Artusi sostiene che pur equivalente, quella francese è un po’ diversa Licinio Lucullo, invece, lega doppiamente il suo nome alla gastronomia. Il primo è legato alla famosa pietanza “Aragosta alla Lucullo”, mentre il secondo è collegato all’aggettivo luculliano, che identifica un pasto bilanciato sia quantitativamente che qualitativamente. Il termine luculliano oggi viene attribuito anche a qualsiasi pranzo ritenuto eccellente.
Per non parlare, infine, dei frutti di mare che i baresi amano consumarli crudi. Tutto il mondo dovrebbe essere - barese – o pugliese per capire cosa significhi il frutto di mare. «Slurpare lentamente un cannolicchio e risucchiarselo in bocca. Accarezzare con la lingua un allievo tenero come il burro e scioglierlo fra le labbra nel brivido dei sensi. Puntare con occhio erotico una frittura di calamaretti e servirsene voluttuosamente con le mani. Ordinare con attesa rosseggiante di desiderio una paranzella croccante. Titillare con lo sguardo un piatto rigonfio di accoglienti mitili a valve aperte. E tutto il mondo dovrebbe passare almeno una volta nella vita, come si fa con i santuari, per uno dei nostri paesi di mare rarefatti di sale, un pugno di case e un braccio di porto con le barche pigre, il profumo inimitabile dei ristorantini che sfornano promesse di felicità. Bisognerebbe passarci almeno una volta per dare un senso alla propria vita”. Così scriveva Lino Patruno in una nota sul “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 5 giugno 2010.
Nel nostro mare, infatti, si trova il pesce migliore: dentici, orate, saraghi, triglie, alici, calamari, seppie, gamberetti, polpi, ma i baresi consumano abbondantemente grandi quantità di frutti di mare “crudi”: cozze, ostriche, polpi, seppioline (allievi), canestrelle, cozze pelose, tartufi di mare (taratuffi), cannolicchi, noci di mare, muscoli (musci), ricci, ecc.
Per questi motivi Bari non poteva essere che la sede naturale dell’Accademia del Mare (presso Ristofish “La Pesciera” di Bari), nata da un’idea di Matteo Gelardi, medico e noto citologo nasale, con la passione del mare.
Mi piace ricordare, infine, una storiella popolare che narra che una volta il Signore, accolto bene a tavola da un vecchietto, gli promise che non avrebbe tenuto conto delle ore che egli aveva e avrebbe passato a tavola, appunto.