Natale e dialetto uniti dalla poesia, pubblicato su: www.giornaledipuglia.com
Il presepio è la rappresentazione plastica della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case nel periodo natalizio, riproducendo scenicamente, con statue, statuette e vario altro materiale, le scene della Natività e dell’Adorazione dei Magi.
Il presepio che si realizza ancora oggi, ha origine secondo la tradizione, dal desiderio di San Francesco di far rivivere in uno scenario naturale la nascita di Betlemme. Nel 1223 a Greccio, in Umbria, per la prima volta arricchì la Messa di Natale con la presenza di un presepio vivente, episodio poi magistralmente dipinto da Giotto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi. L'opera ideata da san Francesco venne chiamata Presepio o Presepe, termine di derivazione latina indicante la stalla, e anche la mangiatoia che si trova in quell’ambiente definito anche ‘recinto chiuso’.
Qualche anno fa mi è capitato di ascoltare, durante la Messa di Natale, per la prima ed unica volta, la declamazione di una poesia sull’argomento, non in italiano o latino, ma in dialetto barese e letta dal celebrante. Ciò sta a significare ancora una volta che il dialetto, la lingua dei nostri padri, si rivela utile anche per trasmettere messaggi di fede e di speranza. La poesia, di autore sconosciuto, fu letta come messaggio di augurio della Commissione Cultura e Comunicazione pro-tempore della Parrocchia di Sant’Antonio di Bari, rivisitata da chi scrive, per darle una forma più conveniente sotto il profilo della scrittura del dialetto ed anche liberamente tradotta in lingua.
Il presepio che si realizza ancora oggi, ha origine secondo la tradizione, dal desiderio di San Francesco di far rivivere in uno scenario naturale la nascita di Betlemme. Nel 1223 a Greccio, in Umbria, per la prima volta arricchì la Messa di Natale con la presenza di un presepio vivente, episodio poi magistralmente dipinto da Giotto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi. L'opera ideata da san Francesco venne chiamata Presepio o Presepe, termine di derivazione latina indicante la stalla, e anche la mangiatoia che si trova in quell’ambiente definito anche ‘recinto chiuso’.
Qualche anno fa mi è capitato di ascoltare, durante la Messa di Natale, per la prima ed unica volta, la declamazione di una poesia sull’argomento, non in italiano o latino, ma in dialetto barese e letta dal celebrante. Ciò sta a significare ancora una volta che il dialetto, la lingua dei nostri padri, si rivela utile anche per trasmettere messaggi di fede e di speranza. La poesia, di autore sconosciuto, fu letta come messaggio di augurio della Commissione Cultura e Comunicazione pro-tempore della Parrocchia di Sant’Antonio di Bari, rivisitata da chi scrive, per darle una forma più conveniente sotto il profilo della scrittura del dialetto ed anche liberamente tradotta in lingua.
Jind’a chèssa vescìgghie chiène de lusce enùddle, tra capetòne, augurie e tanda jose jì me ne sò sciute jind’a na chièssie, sò state citte citte sò acchiedùte l’ècchie e sò sendute la vosce du Natàle:
«Uagnùne – me dèceve – addò sciàte? non avite angòre accapesciùte ca avaste nu picche d’amore, picche quànne a la lusce de na cannèle, p’appeccià tutte le lusce de stasère?»
«Uagnùne – me dèceve – addò sciàte? non avite angòre accapesciùte ca avaste nu picche d’amore, picche quànne a la lusce de na cannèle, p’appeccià tutte le lusce de stasère?»
In questa vigilia ricca di inutili luci, tra capitone, auguri e tanto chiasso, me ne sono andato in una chiesa, stando in silenzio. Ho chiuso gli occhi ed ho sentito la voce del Natale:
«Ragazzi – diceva – dove andate? Non avete ancora capito che basta un po’ d’amore, poco quando la luce di una candela, per accendere tutte le luci di stasera?»