Prefazione di Vito Maurogiovanni
Un buon presentatore ha la buona regola di non occupare molto spazio allorché ha l’onore e il piacere di presentare un’opera: per non togliere al lettore il gusto di scoprire da sé i contenuti delle belle pagine che seguono. Deve inoltre, il buon presentatore, aver il buon gusto di sfuggire alla tentazione di giocare con le sue osservazioni in un lavoro che già si presenta con vivo interesse nei suoi aspetti antologici, saggistici e di sistemazione di quella complessa materia che è il dialetto barese e la sua copiosa produzione, soprattutto poetica. Autore di cotanto interessante tomo è Vittorio Polito, da alcuni anni giornalista vivace e brillante, attento ai fatti di cronaca, soprattutto con l’occhio vigile alla variegata e abbondante produzione editoriale pugliese che segue con segnalazioni e recensioni sui giornali nei quali trova il suo opportuno e vivace spazio.
Questa sua opera prima racchiude nelle pagine una folta schiera dei protagonisti della poesia e della saggistica dialettale, una serie di personaggi interessanti, ancora sulla breccia, altri vivi nel ricordo dei cittadini attenti alla loro storia, e altri ben presenti nelle discussioni sui contenuti di quella che oramai è una vera e propria “lingua” barese.
Collocarli nei lori esatti ruoli non è possibile, anche per la preoccupazione di non salire in cattedra. C’è tanto da dire – specialmente nel bene – su questi protagonisti delle patrie lettere. A seguir la voglia di narrare quel che si sa e quel che s’è letto, la modesta introduzione prenderebbe altri aspetti e soprattutto altre voci.
Quel che mi preme dire è che i protagonisti di questa “baresità” sono docenti universitari e pasticcieri, impiegati di aziende pubbliche e private, insegnanti e pensionati, librai, qualche agricoltore, qualche giornalista, casalinghe, sarte, commercianti e Dio mi perdoni se ho lasciato nella penna altre categorie.
Questa indicazione, che mi pare finora non sia mai stata fatta nei pur sostanziosi saggi esistenti sull’argomento, è la prova che tanti ceti rivelano una grande attrazione per la letteratura popolare. Giocano vari fattori che sono alla base di questo interesse che chiameremo “sociale” per il cantar le nostre cose nell’alma lingua materna. Il primo è forse l’amore per quella lingua che ci è stata insegnata dalle nostre madri, negli infantili discorsi e soprattutto nelle nenie che ci cantavano quando eravamo fardelli nelle loro braccia. C’è poi la difesa della nostra lingua dalla critica degli altri per i suoni e le cadenze; e anche per la volgarità, spesso padrona di un certo linguaggio introdotto specie nei fatti rappresentativi – parliamo del teatro becero, ovviamente – perché la poesia ha alte frecce al suo arco. C’è poi l‘esigenza personale di raggiungere, attraverso la poesia popolare, quei riconoscimenti spesso negati all’uomo di provincia che vive in dimensioni isolate, lontano dai centri classici della produzione letteraria e anche – e questo non va sottovalutato – spesso non in possesso di vere peculiarità artistico-culturali.
Sono naturalmente solo alcuni aspetti dei fatti letterari provinciali tenendo però sempre ben presente che anche la Letteratura – quella con la elle maiuscola – si nutre anche di ben altre, forti aspirazioni ma anche di tante, altre meschine esigenze. L’arte dello scrivere insomma è complessa e, malgrado tutto questo, il cuore dei poeti è sempre pronto a cantare, a piangere, a protestare e a gioire. Come dimostrano i tanti canti, e i tanti saggi che riempiono queste belle pagine.
E qui lo scrupolo di compagno di cordata m’impone di buttarmi a un po’ di ricordi. Qualche citazione dei protagonisti di queste pagine bisogna pur farla, e non se l’abbiano coloro che, solo per ragione di spazio come più volte è stato ripetuto, non sono inclusi. Non si può così non ricordare Francesco Saverio Abbrescia (Bari 1813-1852), canonico, poeta, storico e oratore sacro, membro di varie accademie, tra cui la Pontaniana e l’Arcadia, insegnò lettere presso il Reale Liceo delle Puglie a Bari. Intrattenne rapporti di amicizia con illustri dotti del tempo come Angelo Mai. Partecipò ai moti liberali del 1848 diventando componente della Dieta di Bari. In seguito fu processato e perse l’insegnamento statale.
Autore di versi in lingua, deve la sua fama soprattutto alla poesia in dialetto barese, di cui è considerato a buon diritto il fondatore. Gennaro Venisti, nella prefazione alla ristampa delle Rime baresi del 1887, lo definisce come l’unico, al suo tempo, in grado di «piegare la difficile dicitura del suo popolo alla fine misura del verso, vario e spontaneo come è nei rimatori più veri della prima letteratura dell’Italia meridionale».
Ed ecco Gaetano Savelli (1896-1977) fu poeta in lingua e in dialetto, saggista e, per lunghi anni, critico letterario – per le recensioni poetiche – de La Gazzetta del Mezzogiorno. Funzionario dell’Intendenza di Finanza, non tralasciò mai il suo ruolo di critico severo di giornali e riviste locali e di carattere culturale. Vasta la sua produzione letteraria, poetica e anche qualche incursione nel teatro popolare.
Un buon presentatore ha la buona regola di non occupare molto spazio allorché ha l’onore e il piacere di presentare un’opera: per non togliere al lettore il gusto di scoprire da sé i contenuti delle belle pagine che seguono. Deve inoltre, il buon presentatore, aver il buon gusto di sfuggire alla tentazione di giocare con le sue osservazioni in un lavoro che già si presenta con vivo interesse nei suoi aspetti antologici, saggistici e di sistemazione di quella complessa materia che è il dialetto barese e la sua copiosa produzione, soprattutto poetica. Autore di cotanto interessante tomo è Vittorio Polito, da alcuni anni giornalista vivace e brillante, attento ai fatti di cronaca, soprattutto con l’occhio vigile alla variegata e abbondante produzione editoriale pugliese che segue con segnalazioni e recensioni sui giornali nei quali trova il suo opportuno e vivace spazio.
Questa sua opera prima racchiude nelle pagine una folta schiera dei protagonisti della poesia e della saggistica dialettale, una serie di personaggi interessanti, ancora sulla breccia, altri vivi nel ricordo dei cittadini attenti alla loro storia, e altri ben presenti nelle discussioni sui contenuti di quella che oramai è una vera e propria “lingua” barese.
Collocarli nei lori esatti ruoli non è possibile, anche per la preoccupazione di non salire in cattedra. C’è tanto da dire – specialmente nel bene – su questi protagonisti delle patrie lettere. A seguir la voglia di narrare quel che si sa e quel che s’è letto, la modesta introduzione prenderebbe altri aspetti e soprattutto altre voci.
Quel che mi preme dire è che i protagonisti di questa “baresità” sono docenti universitari e pasticcieri, impiegati di aziende pubbliche e private, insegnanti e pensionati, librai, qualche agricoltore, qualche giornalista, casalinghe, sarte, commercianti e Dio mi perdoni se ho lasciato nella penna altre categorie.
Questa indicazione, che mi pare finora non sia mai stata fatta nei pur sostanziosi saggi esistenti sull’argomento, è la prova che tanti ceti rivelano una grande attrazione per la letteratura popolare. Giocano vari fattori che sono alla base di questo interesse che chiameremo “sociale” per il cantar le nostre cose nell’alma lingua materna. Il primo è forse l’amore per quella lingua che ci è stata insegnata dalle nostre madri, negli infantili discorsi e soprattutto nelle nenie che ci cantavano quando eravamo fardelli nelle loro braccia. C’è poi la difesa della nostra lingua dalla critica degli altri per i suoni e le cadenze; e anche per la volgarità, spesso padrona di un certo linguaggio introdotto specie nei fatti rappresentativi – parliamo del teatro becero, ovviamente – perché la poesia ha alte frecce al suo arco. C’è poi l‘esigenza personale di raggiungere, attraverso la poesia popolare, quei riconoscimenti spesso negati all’uomo di provincia che vive in dimensioni isolate, lontano dai centri classici della produzione letteraria e anche – e questo non va sottovalutato – spesso non in possesso di vere peculiarità artistico-culturali.
Sono naturalmente solo alcuni aspetti dei fatti letterari provinciali tenendo però sempre ben presente che anche la Letteratura – quella con la elle maiuscola – si nutre anche di ben altre, forti aspirazioni ma anche di tante, altre meschine esigenze. L’arte dello scrivere insomma è complessa e, malgrado tutto questo, il cuore dei poeti è sempre pronto a cantare, a piangere, a protestare e a gioire. Come dimostrano i tanti canti, e i tanti saggi che riempiono queste belle pagine.
E qui lo scrupolo di compagno di cordata m’impone di buttarmi a un po’ di ricordi. Qualche citazione dei protagonisti di queste pagine bisogna pur farla, e non se l’abbiano coloro che, solo per ragione di spazio come più volte è stato ripetuto, non sono inclusi. Non si può così non ricordare Francesco Saverio Abbrescia (Bari 1813-1852), canonico, poeta, storico e oratore sacro, membro di varie accademie, tra cui la Pontaniana e l’Arcadia, insegnò lettere presso il Reale Liceo delle Puglie a Bari. Intrattenne rapporti di amicizia con illustri dotti del tempo come Angelo Mai. Partecipò ai moti liberali del 1848 diventando componente della Dieta di Bari. In seguito fu processato e perse l’insegnamento statale.
Autore di versi in lingua, deve la sua fama soprattutto alla poesia in dialetto barese, di cui è considerato a buon diritto il fondatore. Gennaro Venisti, nella prefazione alla ristampa delle Rime baresi del 1887, lo definisce come l’unico, al suo tempo, in grado di «piegare la difficile dicitura del suo popolo alla fine misura del verso, vario e spontaneo come è nei rimatori più veri della prima letteratura dell’Italia meridionale».
Ed ecco Gaetano Savelli (1896-1977) fu poeta in lingua e in dialetto, saggista e, per lunghi anni, critico letterario – per le recensioni poetiche – de La Gazzetta del Mezzogiorno. Funzionario dell’Intendenza di Finanza, non tralasciò mai il suo ruolo di critico severo di giornali e riviste locali e di carattere culturale. Vasta la sua produzione letteraria, poetica e anche qualche incursione nel teatro popolare.
C’è Giovanni Panza (1919-1994) alto funzionario statale nell’ambito del Ministero dell’Agricoltura e attento osservatore delle cose baresi. La sua Checine de nononne è un viaggio per i cibi della tradizione culinaria barese e una finestra di vita vissuta all’ombra della chiesa della Santissima Trinità, di cui la famiglia era stata vigile custode.
Ed ecco i versi di Giuseppe De Benedictis (1895-1963), figlio di un rinomato commerciante di vini, noto a Bari con il nome di battesimo Colantonio nome con il quale era rinomata anche la sua osteria in via Pasquale Villari. Studente, fu allievo del grande professore Angelico Tosti Cardarelli “suo spirito poetico”. Laureato in medicina a Napoli si dedicò alla professione sanitaria come medico condotto e successivamente come Ispettore Sanitario dell’Ufficio Igiene e Sanità del Comune di Bari.
Don Vitantonio Di Cagno (1897-1977), barese, maestro di diritto civile e sindaco di Bari dal 1946 al 1952, fu un tal grande primo cittadino da essere definito da Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri, il miglior sindaco d’Italia. Alle virtù amministrative, univa una forte vena poetica che si traduceva in versi dialettali nei quali dominavano una religiosità santamente laica, l’ironia, gli affetti familiari, un profondo amore per Bari e un vivo senso della musica. La musica anzi era il leitmotiv di tante sue composizioni poetiche sicché, a leggere in profondità i suoi versi pensati e scritti in vigoroso dialetto barese, par di sentire l’accenno di gloriosi libretti del teatro di tradizione. Vito De Fano (1911-1989), nato in quel di Lecce, molto dedicò alla poesia dialettale barese e anche al teatro popolare. Era uomo schivo e modesto ma quando s’abbandonava al suo estro poetico, e teatrale, tratteggiava uomini e cose e sentimenti con grande partecipazione. Il suo tratto stilistico era così vivo da dar spunto, nelle sue poesie, e nelle poche piéce alle quali si dedicò, a veri e propri quadretti di vita vissuta. Sotto tale aspetto si rivelava vero poeta dialettale attento cioè alla quotidianità e alle riflessioni che essa induceva; e calibrato nel riproporre, nella sua essenzialità, il linguaggio vivo e vero che l’attento osservatore popolare filtra ma fa suo nelle rese poetiche e spettacolari.
Per il passato bisogna ricordare anche Armando Perotti, Davide Lopez, Agnese Palummo, Nicola Macina, Giovanni Laricchia, Giuseppe Romito, Alfredo Giovine, Peppino Santoro, Giovanni Lotito, Saverio Micunco, Peppino Franco, Arturo Santoro, Marcello Catinella e il buon Lorenzo Gentile autore, con la figlia Enrica, anche di un valido vocabolario.
Nel presente ecco Giuseppe Gioia, gran verificatore di ponti e poeta sottile, l’estroso Franz Falanga che nella boutade porta un accento d’altra terra. Peppino Zaccaro e Luigi Canonico e il professore Ettore de Nobili,
Ed ecco i versi di Giuseppe De Benedictis (1895-1963), figlio di un rinomato commerciante di vini, noto a Bari con il nome di battesimo Colantonio nome con il quale era rinomata anche la sua osteria in via Pasquale Villari. Studente, fu allievo del grande professore Angelico Tosti Cardarelli “suo spirito poetico”. Laureato in medicina a Napoli si dedicò alla professione sanitaria come medico condotto e successivamente come Ispettore Sanitario dell’Ufficio Igiene e Sanità del Comune di Bari.
Don Vitantonio Di Cagno (1897-1977), barese, maestro di diritto civile e sindaco di Bari dal 1946 al 1952, fu un tal grande primo cittadino da essere definito da Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio dei ministri, il miglior sindaco d’Italia. Alle virtù amministrative, univa una forte vena poetica che si traduceva in versi dialettali nei quali dominavano una religiosità santamente laica, l’ironia, gli affetti familiari, un profondo amore per Bari e un vivo senso della musica. La musica anzi era il leitmotiv di tante sue composizioni poetiche sicché, a leggere in profondità i suoi versi pensati e scritti in vigoroso dialetto barese, par di sentire l’accenno di gloriosi libretti del teatro di tradizione. Vito De Fano (1911-1989), nato in quel di Lecce, molto dedicò alla poesia dialettale barese e anche al teatro popolare. Era uomo schivo e modesto ma quando s’abbandonava al suo estro poetico, e teatrale, tratteggiava uomini e cose e sentimenti con grande partecipazione. Il suo tratto stilistico era così vivo da dar spunto, nelle sue poesie, e nelle poche piéce alle quali si dedicò, a veri e propri quadretti di vita vissuta. Sotto tale aspetto si rivelava vero poeta dialettale attento cioè alla quotidianità e alle riflessioni che essa induceva; e calibrato nel riproporre, nella sua essenzialità, il linguaggio vivo e vero che l’attento osservatore popolare filtra ma fa suo nelle rese poetiche e spettacolari.
Per il passato bisogna ricordare anche Armando Perotti, Davide Lopez, Agnese Palummo, Nicola Macina, Giovanni Laricchia, Giuseppe Romito, Alfredo Giovine, Peppino Santoro, Giovanni Lotito, Saverio Micunco, Peppino Franco, Arturo Santoro, Marcello Catinella e il buon Lorenzo Gentile autore, con la figlia Enrica, anche di un valido vocabolario.
Nel presente ecco Giuseppe Gioia, gran verificatore di ponti e poeta sottile, l’estroso Franz Falanga che nella boutade porta un accento d’altra terra. Peppino Zaccaro e Luigi Canonico e il professore Ettore de Nobili,
Emanuele Battista, Vito Bellomo, Michele Fanelli, Santa Vetturi, Maria D’Apolito Conese e l’attore Vito Signorile che dà spazio teatrale alle espressioni dialettali. Ci sono tutti? Spero di sì, ma ora il sipario deve calare e l’applauso c’è per tutti, citati o non citati. Compresi coloro che il raccoglitore dei testi non ha avuto il tempo d’includere. Amen.