Il dialetto barese? È un’architettura linguistica nella quale l’insulto o il rimprovero toccano vertici di rara bellezza Giornaledipuglia.com 21 marzo 2019
Si parla da anni dell’agonia dei dialetti, ma, andando in fondo, ci si rende conto che non sono pochi coloro che in famiglia e tra amici parlano il dialetto.
Non è forse con le parole del vernacolo che si esprime la vera genuinità, la naturalezza della vita concreta, l’autentico soffrire e sentire di un popolo? Oggi, infatti, inizia ad essere fonte di studio e di interesse per molti. Una poesia in dialetto, ad esempio, è per definizione possibile solo quando esiste una lingua nazionale comune, rispetto alla quale, per ragioni diverse, che variano da caso a caso essa tende a distinguersi.


La letteratura in dialetto, e segnatamente la poesia dialettale è testimonianza preziosa di storia civile e culturale, intrisa com’è dell’intelligenza e della fatica, del sapere intellettuale e delle esperienze
culturali dei soggetti e delle popolazioni che l’hanno prodotta o che in dialetto parlano.

Franz Falanga (1933-2018), nel suo libro ‘O dadò o dadà’ (Adda Editore), si imbarca in un bel viaggio finalizzato al recupero e alla rivalutazione dei termini dialettali baresi, convinto che i dialetti siano un inestimabile tesoro di conoscenza, in considerazione del fatto che ogni parola è talmente carica di plusvalori da essere essa stessa un inesplorato continente. Il tutto condito con un po’ di umorismo che rafforza al massimo l’ottimo lavoro presentato. Secondo lo stesso Falanga «Il dialetto barese è un’architettura linguistica nella quale l’insulto o il più modesto rimprovero toccano vertici di rara bellezza». L’autore ha voluto dare a cultori e studiosi del dialetto barese un ottimo contributo per lo studio e la valorizzazione della nostra prima lingua, riuscendoci benissimo, attraverso un volume graficamente elegante e soprattutto dal titolo intrigante ‘O dadò o dadà’ che in lingua significa “O di qua o di là”, ovvero da qui (leggi dialetto) non si scappa.


Per non parlare di Domenico Triggiani (1929-2005), scrittore poliedrico e instancabile, autore di numerose commedie in vernacolo, che costituiscono un ulteriore importante contributo teso a recuperare la memoria storica del territorio in cui affondano le nostre radici, sono raccolte in tre volumi. Il primo, pubblicato da Levante, comprende “Le Barìse a Venèzie” e “La candìne de Cianna Cianne”; la seconda raccolta di commedie in vernacolo, edita da Capone, contiene tre lavori: “All’àneme de la bonaneme!”, “U madremònnie de Celluzze” e “No, u manecòmie no!”. L’ultima raccolta, pubblicata dall’Editrice Tipografica, comprende oltre a due lavori in lingua, ben sette lavori teatrali in vernacolo. Triggiani è altresì autore del primo romanzo storico-satirico in vernacolo barese, “Da Adame ad Andriotte”, scritto con la moglie Rosa Lettini, pubblicato nel 1992 dall’editore Schena.

Oggi, intorno al dialetto, vi è un gran movimento, evidenziato dalle numerose pubblicazioni, attività e iniziative che sottolineano come il vernacolo è più vivo che mai. È anche doveroso essere grati ad alcuni editori baresi, per la disponibilità e il decoro che riservano a pubblicazioni relative ai nostri dialetti, molto apprezzate dagli studiosi e dai cultori del vernacolo.
Anna Maria Tripputi, già docente nell’Università di Bari, scrive nella presentazione del libro ‘Natale a Bari’ di Celeste e Vito Maurogiovanni (Malagrinò Editore), che «A differenza della poesia popolare, che non ha un unico autore ed una sola versione ma le mille voci del popolo e il caleidoscopio delle varianti, la poesia dialettale è creazione personale di un poeta che sceglie il dialetto, lingua madre, per esprimere sentimenti ed emozioni».
Il dialetto rappresenta in sostanza una specie di tessuto connettivo fra il passato e il presente, nel quale ogni epoca o avvenimento ha lasciato dei segni che offrono testimonianze innumerevoli intorno all’antichità della storia barese, ai contatti avuti con gli stranieri e ai costumi del luogo. Insomma il DNA che permette di conoscere la storia e la provenienza di un individuo.

Un’altra interessante opera di Giovanni Panza (1916-1994), è rappresentata da “La uerre de Troia” (Iliade e Odissea chendate a la pobblazione – Iliade e Odissea narrata al popolo), presentata anche questa in italiano e dialetto barese. Forse perché Omero pare rappresenti una delle fonti da cui risale il nostro linguaggio, per certe citazioni come “Tallone d’Achille”, “Cavallo di Troia”, “Tela di Penelope”, che ricorrono ancora oggi come espressioni di linguaggio corrente anche da parte di chi non ha mai letto il poeta greco. Infatti, in un epoca oppressa da eccessivi materialismi e tecnicismi, tutti i mezzi possono essere strumenti idonei a contrastare l’antiumanesimo. Uno di questi mezzi può essere rappresentato dal dialetto barese che Giovanni Panza ha utilizzato per tradurre nel nostro vernacolo i poemi omerici Iliade e Odissea, il quale nella presentazione scrive che «Il piacere di rileggere i due poemi è stato tale da suscitare il desiderio di renderne partecipi tanti altri. Ovviamente - scrive l’autore - non avevo altri mezzi per attirare l’attenzione se non il dialetto barese e, in dialetto, ho voluto riaccostarmi – con reverente umiltà – al mondo omerico per raccontare, con il tono degli antichi cantastorie, i fatti cruenti e quelli edificanti; ricchi di spunti poetici, di insegnamenti morali e di considerazioni filosofiche che sono contenuti nell’Iliade e nell’Odissea».
Una delle più belle pagine dell’Eneide è rappresentata, com’è noto, dall’episodio relativo al famoso “Cavallo di Troia” che Panza ha così tradotto e intitolato:
In realtà oggi vi è un gran movimento intorno ai dialetti, evidenziato dalle numerose attività ed iniziative che sempre più numerose sottolineano come il vernacolo è più vivo che mai.
Ovviamente ci riferiamo al buon dialetto. È, quindi, pienamente condivisibile il pensiero di Lino Patruno, già Direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” che, rispondendo alla lettera di una lettrice ha scrisse che «… sarebbe bene non far morire il dialetto, fino al punto, se necessario, di studiarlo a scuola».

Giovanni Paolo II, il papa Grande, in occasione di un incontro con i parroci di Roma, accogliendo al volo la “provocazione” di un parroco romano, pronunciò tre frasi in romanesco “Dàmose da fà, Volèmose bbene!, Semo romani”, ulteriore tangibile segno dell’immediatezza della comunicazione dialettale.
Lasciamo quindi che ognuno si esprima nella propria lingua, dal momento che il vernacolo, contrariamente a quanto alcuni sostengono, resiste contro l’assalto dei mezzi di comunicazione e costituisce un ponte che dal passato va verso il futuro e rappresenta la vera espressione dei sentimenti. Infatti, con il dialetto si può ridere, poetare, recitare, piangere e pregare. «Occorre “sdoganare” il dialetto, da sempre relegato in serie B, e fargli avere la dignità che merita».
Lo stesso Perotti sosteneva che «Il dialetto, al pari di tutti gli altri, si va trasformando, non muore: morirà il giorno in cui mancherà l’ultimo abitante, ciò che non pare probabile».
U cavadde de taue
Dope tand’anne de brutte patemiinde; stanghe, scombortate pe le tande lamiinde, le griisce penzorne a nu marchingegne pe levarse mò dananze cudde mbegne.
Che ddò strascedde e quatte taue d’auì facerne nu cavadde granne adacsì. Danande a la meragghie u pertòrene Addò com’a nu cetrone u lassòrene.
Pe sapè ceccose mò veleve disce cudde sagramende fatte da le nemisce, a trademinde le griisce facerne capì ca jieve nu vote offerte a l’Iddì p’esse agevolate a fernì la uerre e a partì finalmende da chedda terre. Mbesce, e cudde cavadde jind’a la vende, le tradeture mettèrene le combattende e facenne le mosse de fescirasinne che l’arme, le fèmene, le piccinine, le mbame s’erne aschennute a la veldate aspettanne tutte pronde che le seldate.
Le troiane, no nzapenne come chembenà: ce u cavadde fa trasì o a mmare scettà o de scì a vedè ceccose steve jinde (nguocchedune penzò a nu trademiinde)
a cusse punde seccedì nu fatte strane: avèvene fatte priggioniire nu cristiane; chiine de livete, ecchie ammelengiate ca chiangenne gredò ch’ere state mazziate da Ulisse, nu mbamone tradetore ca veleve vendecà nu fatte d’onore. Cudde maleditte se chiamave Sinone e sapì fenge bbuene a fa u mbregghione
e che ttande ngingiringì e ngingiringià convingì le troiane u cavadde a pertà mmenz’a la chiazza chiù granne de la città e teneue ddà per le griisce allondanà.
Aveve vogghie a chiange e profetà Cassandra pe le troiane fa arragionà: nesciune a le parole sò crenzeve percè u dDì Apollo adacsì veleve.
A la notte, ca tutte stèven’a ddorme, da la vende du cavadde, comborme a le piane da Ulisse chengegnate, assèrene le seldate chemmannate da cudde rre de Itaca, nu velpone, ca de Troia facì nu sule beccone.
Chedde ca nonn’avèvene fatte pe tand’anne forte uerriire, u facì iune cu nganne.
